Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva nella seduta dello scorso 30 maggio il decreto legislativo sui rifiuti da attività estrattiva che recepisce le regole europee in materia. Le maggiori novità introdotte sono i piani di gestione dei rifiuti per l’operatore; l’autorizzazione e la prevenzione degli incidenti rilevanti per le strutture di deposito dei rifiuti; il continuo monitoraggio dell’attività e gestione del deposito dopo la chiusura.
Il decreto è infatti un sistema di regole per la gestione dei rifiuti prodotti dalle industrie estrattive che si propone di ridurre gli effetti negativi di tali rifiuti sull’ambiente e la salute umana ponendo particolari attenzioni agli aspetti relativi alla sicurezza e al sistema di controlli. A tal fine introduce una serie di obblighi a carico degli operatori dell’industria estrattiva relativamente alle fasi di progettazione, di gestione, di chiusura e post-chiusura delle strutture di gestione dei rifiuti minerari.
Il piano di gestione infatti deve essere messo a punto dall’operatore (che può essere l’imprenditore titolare della miniera o della cava, il titolare del permesso di prospezione o di ricerca di concessione di coltivazione o di autorizzazione della cava). E lo deve fare tenendo conto del divieto generale di abbandono, scarico, smaltimento incontrollato sul suolo, sottosuolo e acque, cercando di prevenire la produzione dei rifiuti, di incentivare il recupero e di assicurare lo smaltimento sicuro. Perché il piano è finalizzato a impedire o ridurre il più possibile gli effetti negativi sull’ambiente e a prevenire gli incidenti rilevanti sia sull’ambiente sia sulla salute umana. Per tutto questo il piano deve contenere gli elementi minimi coincidenti con la caratterizzazione dei rifiuti, la descrizione delle operazioni, le caratteristiche strutturali del deposito, le procedure di controllo e monitoraggio, il piano di chiusura e gestione post chiusura, le misure per prevenire il deterioramento dello stato di aria, acqua e suolo.
Ma sulle spalle degli operatori ci sta anche l’adozione di una politica di prevenzione degli incidenti rilevanti connessi a tali rifiuti: il deposito di rifiuti di estrazione di classe A (che deve essere dotato di apposita autorizzazione) deve essere oggetto di un piano di prevenzione (sono esclusi quando la struttura è già sottoposta alla normativa della Seveso). E una struttura di deposito dei rifiuti è di classe A se il guasto o il cattivo funzionamento (crollo di un cumulo o di una diga) potrebbe causare un incidente rilevante sulla base della valutazione dei rischi alla luce della dimensione presente o futura, l’ubicazione e l’impatto ambientale della struttura. Ma appartiene alla classe A anche quando il deposito contiene rifiuti di estrazione pericolosi e contiene sostanze o parametri classificati come tali.
In tutto ciò l’operatore deve anche nominare un responsabile della sicurezza incaricato di dare attuazione al piano e di predisporre un piano di emergenza interno da adottare nello stabilimento. Mentre un ulteriore piano di emergenza sarà predisposto dalle autorità pubbliche. Nel decreto si parla poi dell’utilizzo dei rifiuti a fini di ripristino e di ricostruzione per la ripiena dei vuoti e volumetrie prodotti dall’attività estrattiva superficiale o sotterranea, ma a certe condizioni. Infatti è consentita quando la stabilità dei rifiuti di estrazione sia garantita, l’inquinamento del suolo e delle acque di superficie e sotterranee sia impedito e il monitoraggio sia assicurato.
Tutto dunque finalizzato alla prevenzione dell’inquinamento e alla riduzione degli effetti negativi dell’attività estrattiva, ma niente mirato alla riduzione dell’attività estrattiva in quanto tale. Secondo il dossier di Legambiente in Italia sono 10 mila le cave abbandonate, 5.725 quelle in funzione; le tariffe di concessione sono ridicole, (addirittura inesistenti al Sud) a fronte di un giro di affari di circa 5 miliardi di euro l’anno per il solo settore degli inerti. In ben 10 regioni mancano i piani cava, con tariffe di concessione che valgono in media pochi centesimi di euro con la conseguenza di dare pieno potere discrezionale a chi rilascia le autorizzazioni (e di renderlo vulnerabile nei confronti delle ecomafie del cemento).
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Fonte: greenreport.it
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